Non una semplice canzone, non parole senza valore musicate per alleggerire durante il "di di festa" la settimana lavorativa, non il canto di un colore politico, ma un inno alla necessità di libertà, al desiderio di sentirsi riconosciuti come popolo, e perchè no, come stato...
Un canto, quello ascoltato ieri sera, che voleva chiedere un basilare principio di autodeterminazione, di denominazione di una lingua, di un popolo, di un territorio.
Questo è stato "Oh bella ciao", cantato in Kurdo ad una Piazza, che ironia della sorte si chiama Italia, una piazza che, illuminata nel suo palazzo più grande con il tricolore italiano, in occasione del 150 esimo compleanno, festeggiava una ricorrenza in cui cavalli e cavalieri, musici e danzatori, si esibiscono per illustrare cosa sia la Sardegna, nelle sue varianti, nelle sue regioni, differenze, colori, profumi, lingue, balli, musiche e danze, costumi e tradizioni.
Quella Sardegna celebrata e autoreferenziata in litri di casse di Ichnussa che bagnano questo incontro tra muratori danzatori di Scottis e filosofi suonatori di Launeddas, tra ragionieri portatori anacronistici di Cambales e oriundi genovesi improvvisati danzatori de Dillu.
Una Sardegna un po' autoinventata, soprattutto in quei tratti dei desideri di indipendenza provenienti da critiche alla Storia del passato, e al sangue sardo versato.
Un po' distante dalle morti sarde del presente, che sono morti, senza più stato di appartenenza, ma unite dall'essere uccise dal Capitale.
Una Sardegna che quando per la prima volta solennizzò La Cavalcata, voleva mostrare, nella piazza in cui campeggia Vittorio Emanuele II, quante cose, uomini e mirabilia, possedesse sua moglie Margherita Savoiarda.
Una Sardegna, che come tutte le regioni del mondo, ha necessità, per autodeterminarsi come tale, di farsi conoscere da chi dovrebbe essere altro dall'essere sardo, ma che per farsi conoscere avrebbe più necessità di conoscersi e non di inventarsi.
Avrebbe necessità di sapere in che anno fu edificato il Nuraghe del paesino dei nonni e che il reperto di bronzo trovato nei suoi pressi è cipriota e non sardo, così come il brassard, corredo di un morto sepolto nella domus de janas, è di un signore d'oltralpe; cosa rappresenta il simbolo di quella pietra antica nella chiesa parrocchiale, o perchè si utilizza il termine "mischinu", sebbene l'isola abbia adottato una bandiera che testimonia la vittoria su quattro sovrani arabi e così via...
Una Sardegna che dovrebbe riconoscere che il sardo, strumento di identità, è la lingua più vicina al padrone romano che arrivò qui ben prima dei savoiardi, dovrebbe sapere che ebbe una donna quale capo di stato (forse è eccessivo definire Eleonora così...) e che non è balente far sedere in auto le donne nei posti più vicini al bagagliaio, ma è solo poco elegante...
Una Sardegna meno mito e più realtà, che seppur isola, appartiene al pianeta terra e non un eden trascendente, una Sardegna senza alcun passato mitico o misterioso, un po' più umile e quindi un po' più sincera.
Una Sardegna diversa e variegata, bastarda nelle origini e quindi biologicamente più eugenica, straniera in terra straniera, con sardi stranieri a casa loro, nè più e nè meno di un valdostano a Pantelleria o di un messinese a Taranto o di un fiorentino a Siena...
Una Sardegna in cui uno strano spirito di indipendenza dall'oppressore Italiano, andrebbe forse rivisto, e reinventato nell'uso dello strumento di democrazia, ovvero del voto, soprattutto davanti agli ospiti Kurdi...
Quei Kurdi, soprannominati Turchi da signorine con solenne maglietta in cui campeggiavano scritte di Indipendentzia dell'Isola (seppur apprezzati per le loro musiche ritmate che hanno animato la piazza), o semplicemente soprannominati quali anonimi "istranzos" o "furisteris"(quindi ben poco denominabili e quindi riconoscibili) dai figli degli autori del pecorino più buono, che poco sanno che la benzina agricola del loro trattore, arriva dalla terra di quegli sconosciuti.
Quei Kurdi che spesso hanno avuto divieto di parlare nella propria lingua, di scrivere e quindi nel tempo anche di pensare, Kurdi che oggi sono profughi, sotto osservatorio dell'ONU per le torture a cui spesso vengono sottoposti, Kurdi a cui non dispiacerebbe poter utilizzare il voto, anche in Turchia, senza osservatori stranieri che ne controllino il regolare svolgimento...
Quello strumento, il voto, che anche noi sardi possediamo, e che sebbene figlio dell'oppressore italiano, abbiamo spesso ignorato e sbeffeggiato, come quando nel 2005 ci astenemmo da utilizzarlo per il referendum regionale per l'abrogazione della legge n°8/2001 che consente l'importazione in Sardegna di scorie tossiche, qualificandole come materie prime.
Ma sia ben chiaro, che non siamo così ignoranti di democrazia!!!
Siamo dei perfetti Italiani, anche noi Sardi!
Soprattutto quando dobbiamo mandare a Palazzo Madama il futuro padrino della nipote di nostro cognato, il quale aiuterà nostro cugino a lavorare in Regione e a farci ottenere di aumentare la cubatura de "sa domo' e foraidda" per poter svolgere nella migliore delle tradizioni, la cena di Pasquetta.
Ma quel canto che i Kurdi potevano liberamente esprimere in una Piazza, quel canto che ha origine in Italia, e che hanno intonato davanti ad una folla festante, con onori e tributi, con gioia, quel canto che parla di guerre di monti, monti che in Kurdistan sono il simbolo di resistenza, quel canto che non ha più stato, ma solo banale desiderio di pace, dovrebbe farci riflettere un po' di più, dovrebbe soprattutto far ripensare a valori che, come gruppo umano sardo, abbiamo tanto idealizzato e ben poco applicato, noi come tanti altri, nè più nè meno...
Grazie ai Koma Azad e Gowende che ieri sera, con la loro musica e la loro presenza hanno fatto riflettere me e spero anche tante altre persone.
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